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Assertività

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Training di assertività: in cosa consiste

Autore

Prof. Emilio Franceschina

Il Training di assertività e la Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Tra le pratiche di maggior successo proprie della terapia cognitivo-comportamentale (CBT), il training di assertività ha occupato ed occupa senza dubbio uno spazio di tutto rilievo.

Nonostante le basi dell’assertività siano fatte risalire ad Andrew Salter, alla fine degli anni ’40, è soprattutto a partire dagli anni ’70, sotto l’influenza delle teorie socio-cognitive, dei modelli dello Human Information Processing e delle teorie dell’apprendimento sociale, che si è assistito ad un proliferare di trattamenti cognitivo-comportamentali volti allo sviluppo di abilità sociali ed interpersonali.

Tutti questi training hanno alla loro base un elemento comune teorico-metodologico (tipico della Behavior Therapy ed ancora oggi della CBT): considerare le difficoltà, i problemi ed i sintomi delle persone non tanto come dei segnali di malattia, ma come segnali di mancanza di abilità.

Secondo quest’ottica, la persona che definiremmo timida, chiusa, che non ha il coraggio di dire quello che pensa, che non riesce a “farsi valere” non ha una malattia da curare, ma ha delle abilità da dover sviluppare.

Lo psicologo cognitivo-comportamentale è in questo senso un abilitatore, un educatore, un trainer, un esperto che insegna, che modella, che suggerisce, che “aggiusta” e che fa riflettere.

Training di assertività e ansia sociale

Il training di assertività nasce innanzitutto come metodologia per trattare i sintomi di ansia sociale. Molte persone con difficoltà interpersonali attribuiscono i loro problemi a fattori interni di tratto (“sono timido”, “sono ansioso”), piuttosto che ad elementi di apprendimento e di interazione con l’ambiente.

Chi ha questo tipo di difficoltà non ha sviluppato un variegato repertorio di azioni sociali adattive, imparando ad evitare le situazioni temute, sviluppando così “poca dimestichezza” in molte situazioni sociali ed un repertorio piuttosto tipico di convincimenti che favoriscono le inibizioni e l’espressione dell’ansia.

Ad esempio, “Se dico quello che penso, ho paura che gli altri mi possano giudicare male e mettere da parte”; “Se rispondo di no, gli altri potrebbero pensare che sono un egoista”. Frasi come queste sono molto comuni quando si conducono i training di assertività e testimoniano come le inibizioni delle persone non siano tanto disturbi che stanno “dentro” la persona, ma piuttosto costruzioni sociali.

Vi sono molte definizioni di assertività. Una di quelle maggiormente fruibili, anche per la sua semplicità, è quella di DeMuynck e Forster: la capacità di esprimere in modo chiaro e diretto le proprie opinioni, i propri bisogni e le proprie emozioni, cercando di mantenere nel contempo un rapporto positivo con gli altri.

“Essere assertivi” non vuol dire pertanto solo “esprimere ciò che sento e penso”, ma significa anche farlo in un certo modo, utilizzando modalità comunicative consapevoli e socialmente adeguate, sia dal punto di vista verbale che meta-verbale.

Come stare bene con gli altri

Lo scopo di apprendere lo stile assertivo non è tanto quello di farsi valere (di diventare dei “duri”), ma piuttosto quello di stare bene con gli altri, sentendosi liberi di manifestare ed esprimere ciò che si pensa e si prova, tenendo però conto dei medesimi diritti altrui.

L’assertività viene inoltre concepita come un punto medio ideale posto tra due estremi opposti: il polo aggressivo ed il polo passivo.

La persona che impiega uno stile aggressivo ottiene ed esprime ciò che vuole, che pensa e che sente, ma lo fa senza tener conto dell’altro, della sua sensibilità e dei suoi desideri; tende ad imporsi agli altri, costringendoli a seguirlo nei suoi bisogni, in modo diretto (aggressivo), o indiretto (ad es. facendo leva sul senso di colpa).

La persona passiva, invece, si è abituata ad assecondare i bisogni degli altri, soprattutto per timore del loro giudizio; talvolta vorrebbe dire di “no”, ma alla fine risponde “sì”, per il timore delle conseguenze e per il bisogno di accettazione; le conseguenze negative per chi adotta questo stile sono spesso assai superiori a quelle positive: da un lato gli altri non attaccano il soggetto o non lo abbandonano, ma dall’altro la persona non riesce a soddisfare i propri bisogni (da qui, l’insoddisfazione o i sintomi depressivi) e si sente sempre in balìa delle decisioni altrui (da qui, talvolta i sintomi ansiosi).

Il training come trattamento di gruppo

Il training di assertività è concepito soprattutto come trattamento di gruppo (anche se può essere applicato, con alcune varianti, individualmente). È costituito normalmente da 10-15 sedute di circa due ore ciascuna e comprende una parte teorica e molte parti pratiche.
Nella prima vengono illustrati i principi generali dell’assertività, gli aspetti che normalmente favoriscono il comportamento non-assertivo (anassertivo), il modo per identificare correttamente le critiche improprie, le diverse tipologie di comunicazione di tipo verbale e non verbale, ecc.
Nelle seconde vengono svolte esercitazioni pratiche, role-playing (giochi di ruolo), esercizi di esposizione, per aiutare la persona ad applicare praticamente quanto appreso, ad esporsi e a vincere talune inibizioni.

Il training di assertività non ha solo applicazioni cliniche, ma può essere applicato anche in contesti organizzativi ed in gruppi di lavoro professionali. È in sostanza una pratica adatta a chiunque desideri apprendere a stare con gli altri in modo sempre più adeguato, positivo ed efficace.

È inoltre una metodica generalmente molto gradita e piacevole per chi vi partecipa, ed anche per chi la conduce. I gruppi assertivi sono un’esperienza formativa davvero ricca e spesso divertente. Le persone si mettono in gioco, cercando di mostrare la loro creatività ed al contempo di vincere le loro inibizioni.

Talvolta, si formano gruppi che proseguono a frequentarsi anche al termine del training, come vecchi compagni di scuola, il cui vocabolario si arricchisce di termini tecnici che sono la riprova, talvolta scherzosa (ma più consapevole), di una nuova lettura della realtà (ad es. “sono stato davvero assertivo”, “ha cercato di manipolarmi”; “ho usato l’annebbiamento”).

Chi dice che gli interventi psicoterapeutici debbano sempre essere processi duri, profondi, dolorosi e “seriosi”?

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