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Un Paese per vecchi!

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È un paese per vecchi! Disturbi cognitivi e Caffè Alzheimer

Autori

Dott. Andrea Dessì e Dott.ssa Irene Gelai

Stimolazione cognitiva nelle demenze

Durante il mio percorso di studi mi sono avvicinato a molti ambiti psicologici diversi ed il mio interesse si è focalizzato anche sul ramo delle neuroscienze che studia i disturbi cognitivi e le patologie che li causano.

Presso il centro, i pazienti con sospetto decadimento cognitivo, inviati dal medico curante, dal geriatra o dal neurologo, sono sottoposti a indagini mediche (esami ematochimici, elettrocardiogramma, risonanza magnetica) e neuropsicologiche (test standardizzati), per la formulazione della diagnosi.

Per tutti i pazienti sono programmati dei controlli periodici per valutare l’efficacia della terapia in atto e la progressione della malattia. A seguito della diagnosi di demenza non vi è una regolarità e un’uniformità nei sintomi che si manifestano nell’individuo.

Essi possono essere sia cognitivi che comportamentali e richiedono adattamenti al contesto fisico e sociale in cui il paziente vive.

I Caregiver

La capacità di relazionarsi sia con il paziente, sia con i suoi familiari è una caratteristica necessaria per lavorare in questo tipo di contesto; non tutti reagiscono allo stesso modo e quindi, anche i professionisti, dovranno adattare il modo di comunicare la diagnosi e le sue conseguenze di volta in volta.

I familiari necessitano di qualcuno che spieghi loro come possono gestire la situazione, che li aiuti a comprendere che la malattia porta ad azioni, pensieri e parole che non possono essere vissute come se il paziente agisse con volontà e/o intenzionalità, ma soprattutto hanno bisogno di qualcuno che li ascolti e li supporti nelle varie fasi della malattia.

I caregiver hanno la necessità di svolgere delle commissioni e, durante la mattinata, quando il paziente è impegnato all’interno del progetto, possono farlo sapendo che il loro caro è presso il centro, in un luogo sicuro e protetto, con persone che lo assistono.

L’assistenza di una persona che soffre di demenza richiede presenza ed attenzione costante, assorbe tutto il tempo e le forze a disposizione del caregiver, colui che si dedica maggiormente alle cure e alle necessità del malato, che talvolta arriva a perdere la sua individualità in quanto vive in funzione dell’altro.

Mi sono chiesto se questi miglioramenti che vengono riscontrati nei pazienti e nei loro caregiver potessero trovare un riscontro oggettivo.

La ricerca di riscontri oggettivi, oltre a confermare la validità e l’utilità di un progetto strutturato come il “Caffè della Memoria” è anche finalizzata alla richiesta e all’ottenimento di ulteriori fondi per la sua diffusione nel territorio potendo, in questo modo, ampliare l’aiuto fornito ad un maggior numero di persone.

Plasticità celebrale

In questa fase della vita l’individuo è reso più vulnerabile all’ambiente che lo circonda e meno adatto a svolgere compiti quotidiani a causa di una riduzione delle riserve di cui dispone; infatti, durante la vecchiaia, si verifica un normale decadimento delle funzioni cognitive che però solitamente vengono compensate.

È stato dimostrato che anche in età senile, con un allenamento costante, si possono mantenere le capacità cognitive; inoltre, esse possono essere incrementate in coloro che non mostrano un’iniziale forma di declino.

Durante la vecchiaia, il meccanismo di plasticità cerebrale è ancora possibile (Schaie et al., 1986).

Dati demografici (è un Paese per vecchi?)

In Italia, secondo l’ultima rilevazione dati Istat, che fa riferimento alla situazione italiana nell’arco del 2016, dopo molto tempo assistiamo ad una diminuzione della speranza di vita alla nascita, mentre le nascite si riducono.

Vi è un continuo aumento delle persone che raggiungono età elevate e l’età è il maggiore fattore di rischio per sviluppare una demenza; si deve infatti considerare che gli ultrasessantenni rappresentano più del 22% della popolazione, dove il 3% superano gli 85 anni e vi è un notevole aumento degli ultracentenari, che sono più che triplicati dal 2002 al 2013, da 6.100 a 19.095 (Istat, 2016).

Il progressivo invecchiamento della popolazione fa sì che vi sia un continuo aumento delle diagnosi di demenza anche se si sta verificando una riduzione della loro incidenza nella popolazione.

Il 56% di coloro che muoiono a causa di una demenza o di una malattia del sistema nervoso ha un’età superiore agli 85 anni (Istat, 2016).

Due parole per spiegare la demenza

La demenza può essere definita come uno stato acquisito, che implica un decadimento cognitivo che deve influenzare la vita dell’individuo e che deve avere un andamento progressivo; nello stesso tempo i deficit cognitivi non devono essere in relazione con disturbi di vigilanza o coscienza, (Grossi e Trojano, 2011).

Nel DSM-5 la demenza viene rinominata disturbo neurocognitivo maggiore e comprende disturbi dove la patologia sottostante può essere potenzialmente determinata e dove vi è una compromissione delle funzioni cognitive che è acquisita e quindi rappresenta un declino rispetto al livello di funzionamento precedentemente raggiunto.

La nuova edizione del manuale diagnostico riconosce anche il disturbo neurocognitivo lieve, dove il livello di compromissione cognitiva è minore e può sostituire la diagnosi di Mild Cognitive Impairment, MCI, (Petersen et al., 1999) che veniva fatta precedentemente. Per la diagnosi di disturbo cognitivo lieve deve esserci un disturbo di un dominio cognitivo, rilevabile clinicamente e dai test psicometrici, che deve avere una testimonianza esterna; non è sufficiente che il paziente riporti di avere delle difficoltà.

I deficit cognitivi non devono interferire nella vita quotidiana, sociale e lavorativa del soggetto, ma si rileva una reale differenza rispetto le abilità precedenti in quanto alcune attività richiedono uno sforzo maggiore e l’uso di strategie compensatorie.

La demenza ha aspetti multifattoriali e non esistono terapie che permettano di arrestare il decorso dei sintomi o di ripristinare il livello cognitivo. Per questo motivo la priorità è quella di creare la migliore situazione ambientale e sociale possibile.

I trattamenti non farmacologici rispondono a questo obiettivo; è stato dimostrato (Olazaràn et al., 2010) che i pazienti, dopo questa tipologia di trattamenti, percepiscono un miglioramento nella loro qualità di vita. Nello stesso tempo, sono interventi che possono controllare gli aspetti comportamentali e ridurre l’impatto di quegli cognitivi a prescindere dalla terapia farmacologica.

Caffé Alzheimer

Alzheimer Caffè si deve allo psicologo clinico olandese Bere Miesen (15 settembre 1997 a Leiden). Bere Miesen è nato il 12 settembre 1946 a Heerlen, dopo essersi laureato in psicologia presso l’Università di Nijmegen, ha svolto il suo lavoro in psicogeriatria clinica e ambulatoriale, dedicandosi alla ricerca e alla formazione nel campo dell’invecchiamento ed in particolare della demenza.

Uno degli scopi principali, secondo Miesen, era la formazione sulle varie fasi della demenza e sulle sue conseguenze che coinvolgono aspetti sia clinici che comportamentali. Nello stesso tempo era necessaria la creazione di un luogo informale, di condivisione, adatto ad aumentare l’accettazione sociale e ad evitare l’isolamento che solitamente colpisce il malato ed il suo nucleo familiare.

Negli ultimi anni si sta assistendo ad uno sviluppo esponenziale di progetti basati sull’Alzheimer Caffè in tutto il mondo. In Olanda ne possiamo trovare più di 220, 60 nei Paesi Bassi e progetti che perseguono gli stessi scopi, si stanno diffondendo anche in Grecia, in Australia e negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l’Italia, dal 2000 ad oggi, sono stati aperti più di 100 progetti sollievo e le aperture di luoghi con queste caratteristiche sono in continuo aumento.

Risultati di ricerca

Ciò che emerge dal progetto è che i dati mostrano un’inevitabile progressione della patologia che influisce nelle funzioni cognitive e nel livello di autonomia dei pazienti. La differenza più significativa si riscontra nella percezione della qualità di vita dei pazienti stessi.

Il costo di un progetto con queste caratteristiche è molto inferiore ai costi a cui la sanità pubblica deve continuamente fare fronte. Si tratta quindi di un intervento a basso costo e ad alto valore aggiunto che si prefigge di raggiungere l’obiettivo di essere “a massive amount of personalized care” (Avanzini et al., 2016).

BIBLIOGRAFIA

• Avanzini S., Li Bassi P., Berruti N., Boffelli S., Bottura R., Brignoli B., Cappuccio M., Ghianda D., Guerini F., Guerini V., Mafezzoli E., Martelli A., Mercurio F., Podda F., Radici B., Rodella A. (2016). Coordinamento degli Alzheimer Caffè della Lombardia orientale. Manuale operativo. Psicogeriatria, 2, 2, 1-35.
• DSM 5 (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. American Psychiatric Association (APA). De Beni R. (2009). Psicologia dell’invecchiamento. Bologna: Il Mulino Editore.
• Grossi D., Trojano L. (2011). Lineamenti di neuropsicologia clinica. Seconda edizione. Carocci Editore: Roma.
• Istat (2016). Rapporto annuale, la situazione del Paese. (http://www.istat.it/ it/files/2016/05/Ra2016.pdf).
• Olazaràn J., Reisberg B., Clare L., Cruz I., Peña-Casanova J., Del Ser T., Woods B., Beck C., Auer S., Lai C., Spector A., Fazio S., Bond J., Kivipelto M., Brodaty H., Rojo JM., Collins H., Teri L., Mittelman M., Orrell M., Feldman HH., Muñiz R. (2010). Nonpharmacological therapies in Alzheimer’s Disease: a systematic review of efficacy. Dementia and geriatric cognitive disorders, 30, 161-178.
• Petersen R.C., Smith G.E., Waring S.C., Ivnik R.J., Tangalos E.G., Kokmen E. (1999). Mild cognitive impairment: clinical characterization and outcome. Archives of Neurology, 56, 3, 303-308.
• Schaie K.W., Willis S.L. (1986). Can Decline in Adult Intellectual Functioning be Reversed. Developmental Psychology, 22, 223-232.

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